Il
successo di un articolo non è facilmente preventivabile. Dipende dai lettori.
Quando un paio di settimane fa ho scritto quello nel quale spiegavo la strategia di marketing dietro il
successo della golfista Paige Spiranac, non avrei mai
immaginato quello che è successo. Il post di lancio sui social ha raggiunto numeri notevoli, la stampa generalista ha
“ripreso” – come si dice in gergo – l’articolo e ho ricevuto molti messaggi in
privato. Mi chiedevano di dare una mia visione del momento attuale del golf in Italia. A mandarmi questi messaggi non erano solo i miei amici golfisti e addetti ai lavori, ma anche
semplici aspiranti golfisti o amanti dello sport in genere.
Questo
a riprova che nei confronti di questo meraviglioso sport c’è una grande “simpatia” e curiosità.
Da
golfista, ho rispolverato la mia rubrica telefonica e ho chiamato alcuni miei
amici che gravitano, a vario titolo, attorno al mondo dei green. Volevo ascoltare i cosiddetti addetti ai lavori. Volevo
capire.
Chi
mi conosce, sa bene che non sono persona che apre bocca quando non conosce
l’argomento.
Scrivo
quindi questo articolo in qualità di esperto di marketing, ex atleta professionista, giocatore di golf e
conoscente di molti operatori del settore.
La
parola che ho sentito pronunciare più spesso è “crisi”. Tanto per cambiare!
È
indubbio che la gestione economica di un circolo sia difficoltosa. I costi
fissi, basta fermarsi un attimo a pensare, sono notevoli.
È
altresì indubbio che ci siano però due fattori che non possiamo ignorare.
Il
primo: la parola “crisi” viene spesso utilizzata a sproposito. Non si tiene
conto del fatto che la crisi sia strettamente collegata al concetto di tempo.
Se in questo momento io avessi una crisi respiratoria, e non passasse nel giro
di qualche minuto, i miei parenti ne avrebbero un forte dispiacere. Almeno
credo.
Quando
un fattore negativo persiste, si deve parlare di fattore patologico, non di
crisi. Questa crisi (vera o presunta) dura da troppo tempo per essere tale.
Il
secondo: è un fattore di approccio al problema. Di natura culturale e
psicologica. Quando mi parlano di “crisi”, mi sottolineano sempre cosa non va,
e si fermano.
Mai
una soluzione o un’azione!
Dei
problemi sanno tutto, sono degli esperti, tuttavia quando finiscono di parlarne
cala un silenzio imbarazzante e surreale. Come se la soluzione dovesse venire
dal cielo o comunque sempre da qualcun altro. È come se chi facesse parte del
problema, automaticamente si sentisse escluso dalla soluzione pur facendo parte
di quell’ambiente.
Dare
una soluzione a tutto questo non è semplice. Tutto sta nella ricerca di un
equilibrio tra strategie di co-marketing
(turistico e sportivo), management aziendale, event
management, reputation management e soprattutto un cambio di mentalità ed
approccio.
Tra
i maestri di golf ormai si è già fatto strada il concetto di mental
coaching. Peccato che gli stessi professionisti e i gestori dei
circoli, il cambiamento mentale non lo attuino, e continuano a commettere
errori che sono il frutto di abitudini e approcci sbagliati, che con il tempo
si sono trasformati in metodo.
È
necessario imparare a ragionare per macro sistemi. Inserendo il circolo e le
proprie strategie in ambiti più ampi.
- Bisogna
inserire il circolo all’interno di
un contesto turistico di incoming attivo (marketing
turistico)
- Bisogna
lavorare sulla visibilità e sulla reputazione del circolo, affinché il pubblico
possa entrare in contatto, conoscere e scegliere di far parte di quel golf club. Bisogna rendere il socio
fiero di far parte del proprio circolo e del suo brand, facendo leva sullo
spirito di appartenenza. Che non è da confondere con la cena natalizia! Mi
riferisco a quell’esperienza esclusiva che deve vivere entrando quotidianamente
nel suo golf club. Bisogna educarlo all’etichetta e fare in modo che questa disciplina diventi quello che
cerca e che per lui fa la differenza. Sempre più spesso i telefonini suonano
nelle club houses e sui campi,
con conversazioni che diventano di dominio pubblico - per usare un eufemismo.
Domanda:
ma devo pagare una quota da migliaia di euro anche per questo?
Bisogna
in altre parole lavorare di RP, di reputation
management e comunicazione.
-
Bisogna avere una strategia di management
corretta da attuare ogni giorno. Sono le buone prassi aziendali a dover
diventare delle abitudini. I vecchi schemi mentali e tecnici, insieme alle
vecchie abitudini, non permettono ai circoli di poter creare delle nuove
opportunità di business. Poca attenzione verso i potenziali stakeholders,
gli sponsor e i potenziali
investitori, limitano le grandi potenzialità che un circolo ha di attrarre
flussi economici e finanziari. In altre parole serve una strategia di
management aziendale.
-
Bisogna creare eventi, degni di questo
nome. In grado di attrarre sportivi e persone che altrimenti non conoscerebbero
le nostre realtà. Bisogna capire che un circolo può far parte di un sistema di
interesse ampio e variegato, che aspetta solo di essere conquistato.
-
Bisogna imparare a fare la differenza. Un golfista sa già cosa aspettarsi da un
golf club quando lo visita la prima volta. Questo è buono. È rassicurante. Ma
basta? Dobbiamo fare in modo che quel golfista ci aiuti a creare la nostra
credibilità, la nostra reputazione positiva. Basta poco a volte per fare la
differenza. Una buona comunicazione, la giusta professionalità del personale,
la giusta cura per i dettagli.
Il
logo ad esempio, spesso è solo un
feticcio dell’estabilishment del circolo, o al contrario una cosa che viene
vista come “inutile”. Il logo è il marchio distintivo che i soci e gli ospiti
devono ricordare con orgoglio quando pensano alla loro esperienza di gioco e
soggiorno.
Come
si vede, attuare tutto questo non è facile. E non si può pensare che qualcosa
di così complesso possa essere fatto “con il fai da te”, citando un vecchio
spot di un noto tour operator che terminava con un “ahi ahi ahi!”.
È
necessario coinvolgere professionisti delle suddette discipline.
Una
delle cose che mi ha colpito maggiormente è stato sentire frasi del tipo:«C’è
crisi, non ce lo possiamo permettere». Ma scusate… ma il medico voi lo chiamate
quando state bene? O lo chiamate per gestire la crisi e fare in modo che non
diventi una patologia o un’agonia?
In
questo contesto, vi è un’altra anomalia che non riguarda solo i circoli, ma
anche i maestri e i professionisti.
Ho parlato con alcuni di questi, e ho scoperto una cosa che mi ha lasciato
perplesso. Per usare un altro eufemismo.
Non
si vedono come degli atleti professionisti. (!)
Hanno
tutti il poster di Rory McIlroy e Tiger Woods nel pro shop, ma non fanno
nulla per avere i loro benefit. Si accontentano di avere “sponsorizzazioni” di
aziende che gli cedono del materiale in usufrutto e si sentono realizzati.
Quelli che pensano di essere più accorti inseriscono la parola “academy”
accanto al cognome e con una pagina facebook con 200 o 300 “mi piace” credono
di aver raggiunto un buon risultato.
Nell’articolo
che “mi ha portato” a scrivere questo (1), ho spiegato come ad attirare le opportunità
di business e gli sponsor ormai siano (soprattutto) i volumi, la visibilità e
la reputazione nel mondo del management sportivo applicato agli atleti. Dovremmo
già essere oltre questo concetto, non dovrei essere qui a scriverlo; ancora e
ancor di più il lettore non dovrebbe leggerlo, ma avrebbe già dovuto
interiorizzarlo. Che piaccia o no, una cosa: o funziona, o non funziona. O
porta risultati, o alimenta le convinzioni, e queste non portano i flussi e i
volumi che si potrebbero avere.
Alla
domanda: «Perché gli sponsor veri dovrebbero darci i soldi? »
C’è un’unica risposta: Per la visibilità che
puoi dargli e per il valore percepito positivo collegato alla tua immagine e al
tuo lavoro. Non per la “stima” dei colleghi (che comunque ci dovrebbe essere) e
per i pochi contatti a disposizione. L’audience è un elemento semplice che
esiste da molto tempo ormai. Non vale solo per gli altri. E non sono sempre e
solo gli altri ad avere qualcosa da dimostrare. Al centro della mente e degli obiettivi
di un atleta, pretendo il miglioramento dei propri limiti.
Ora,
credo sia giusto terminare questo articolo con una domanda. La domanda che
tutti si pongono.
Possiamo
fare qualcosa per migliorare la situazione? La risposta è ovvia: SI. Ma bisogna
cambiare mentalità e abitudini.
È
necessario che ognuno faccia il proprio lavoro e che per quello che non si
conosce si chiamino professionisti in grado di fornire risultati, ancor più che
servizi. Il fai da te non solo non basta, ma come le convinzioni, rischia di
essere pericoloso. Non solo per le persone, ma anche per uno sport che merita
di essere amato e di essere praticato. Accettate la sfida! Io sono pronto a
farlo! E voi? Nel frattempo, mentre ci pensate, prendo la mia sacca e vado al
circolo.
Emmanuele Macaluso
(1)
link all’articolo dedicato a Paige Spiranac e alla sua strategia di personal
branding e marketing http://emacaluso.blogspot.it/2016/02/case-history-paige-spiranac-quando-i_11.html